BALI, 24 LUGLIO. Alle ore 19.00 del 24 luglio la mia probabilità di sopravvivenza stimata è del 50%. Pressione arteriosa di 50/30, più di 2 litri di sangue persi, shock emorragico di classe IV.
Tre ore prima ho il sorriso stampato in faccia mentre risalgo due gradini alla volta la lunga scalinata che porta alle Nungnung Waterfalls, nel cuore dell’isola. Il mototassista di Grab (l’Uber indonesiana) mi aspetta alle 16 in punto in cima al sentiero. Ho il fiatone e sono ancora zuppo e infreddolito per il bagno nelle cascate quando risalgo sullo scooter, direzione Ubud. Il piano è tornare il prima possibile all’ostello per recuperare lo zaino e spostarmi a Denpasar poco dopo il tramonto. L’ironia del destino è che a Denpasar ci sarei arrivato ancora prima del previsto, ma non sulle mie gambe. Alle 16.22 il mototassista K. supera a destra (in Indonesia si guida a sinistra) un’area di lavori in corso in una zona rurale. Per ragioni non ancora chiarite ci troviamo ancora contromano quando, cinquanta metri più tardi, con la coda dell’occhio scorgo un camion rosso venirci incontro a velocità sostenuta. Gli istanti che seguono resteranno per sempre impressi nella memoria ed è impossibile rievocarli senza provare un brivido freddo lungo la schiena. Lo scooter sterza bruscamente verso sinistra. Il camion prova a scansarci ma l’impatto è inevitabile. Una gigantesca macchia rossa sfrecci a pochi centimetri dalla mia faccia quando sento un fortissimo squarcio alla gamba destra. Poi, il volo, che nella mia percezione dura un’eternità. Proiettato in avanti, striscio per oltre 5 metri sull’asfalto prima di urtare il marciapiede. «Sta succedendo davvero», penso. «Credo che il viaggio sia finito qui. Non vedrò Lombok o l’isola di Komodo». Sono quasi infastidito. Mi metto subito a sedere con il cuore in gola per l’adrenalina. Quando guardo giù non vedo una gamba, ma un arto alieno: una massa di muscoli, ossa, legamenti senza forma che non mi appartiene. Un geyser di sangue inizia a zampillare da quello che fino a qualche secondo prima era il mio ginocchio, ora divelto. Il driver è ancora in sella alla moto, illeso: fissa lo squarcio nella gamba con un’espressione di shock che non scorderò mai. Gli urlo di aiutarmi: «Ambulanz sekarang, permisi» (Ambulance now, please). Ma lui non reagisce. Ha il vuoto negli occhi. Prima che io riesca a dire altro lo vedo sfrecciare via, senza voltarsi indietro. Abbandonato come un cane, capisco che tutto sta per finire su un anonimo marciapiede dell’Indonesia, a migliaia di chilometri da casa. Tremo come una foglia ma mi sforzo di non svenire. Raccolgo tutte le energie che ho in corpo per sbracciare alle auto che passano, fino a radunare attorno a me un capannello di cinque, sei persone. Mi guardano come se fossi spacciato. C’è addirittura chi filma da lontano senza il coraggio di avvicinarsi. Passano dei minuti prima che un signore sulla sessantina si decida a chiamare i soccorsi. Noto che indossa una giacca a vento: gli chiedo di cedermela e la stringo a mo’ di laccio emostatico sull’arteria femorale per frenare l’emorragia. Quello sconosciuto potrebbe essere mio padre: mi stringe la mano e prova a rassicurarmi, con gli occhi lucidi. «Don’t worry, they’re coming». L’attesa dell’ambulanza, però, sembra infinita. Alle 16.28 mando la mia posizione in tempo reale alla mia amica brasiliana, Julia, che si trova nel nord dell’isola con il ragazzo, a due ore e mezza di curve: «Ambulance, please. Amiga, não quero morrer». Dieci minuti dopo arrivano i soccorsi. Il trasporto è traumatico: ad ogni curva o dosso sulla strada le ossa entrano ed escono dalla gamba. Mordo una coperta per il dolore, mentre un’infermiera preme forte sulla coscia, aiutata dal signore. Julia intanto mi tiene compagnia a distanza: è già saltata in moto per raggiungermi. Sua madre -il mio vero angelo custode di queste primissime ore- è in linea da Rio de Janeiro con la mia assicurazione sanitaria per attivare l’assistenza. Alle 16.42 arrivo in quella che sembra essere una piccola clinica di campagna. Mi parcheggiano nella sala di attesa, in attesa di un triage che non arriva. Chiedo all’infermiera dell’ambulanza di restare al mio fianco a comprimermi la coscia. Mi bastano pochi minuti per capire non solo che non verrò operato in quella struttura ma che i medici non hanno alcuna intenzione di portarmi in un ospedale vero. Urlo, piango e mi dimeno per oltre mezz’ora: «Send an helicopter please, I need surgery now». Provo a spiegare che i soldi non sono un problema, che ho un’assicurazione sanitaria, ma la dottoressa di turno dice che non può farci niente. Non ci sono ospedali in zona, né tanto meno elicotteri. Sono le 17.15 quando due agenti di polizia entrano nella clinica, allertati da testimoni sul luogo dell’incidente. Stringo la gamba a uno di loro: «Please, please, I could be your son, please, don’t let me die here». In lui si smuove qualcosa, inizia a piangere e promette di aiutarmi. Dopo quindici minuti sono su una nuova ambulanza, diretto a un ospedale pubblico. Inganno il tempo videochiamando una delle persone più importanti della mia vita: mi sforzo di ridere e di restare vigile. Alle 17.39 arrivo all’RSD Mangusada, appena fuori Denpasar. La sala di attesa del pronto soccorso sembra un campo di battaglia: ci sono molti feriti. Tra di loro anche un italiano sulla trentina: «Bring me my wife», urla. Gli infermieri sono talmente occupati che ignorano le mie richieste di aiuto. Uno di loro si avvicina solo per dirmi, con voce severa e un ghigno di beffa: «You tourists never learn. Motorbikes are dangerous. You will die now». Provo a rispondergli ma non ho le forze. Il dolore inizia a essere molto più intenso: il picco di adrenalina è passato. Sono passate ormai quasi due ore dall’incidente e non ho avuto neanche un paracetamolo. Dopo qualche minuto lo stesso infermiere ritorna dicendomi che dovrà girarmi la gamba per comprimere l’arteria rotta. «Please give me some morphine, at least». Mi risponde che non ce l’hanno, ma dopo qualche minuto ritorna con del fentanyl. Ironia del destino: dopo aver più volte scritto e parlato di fentanyl nel 2024, tocca a me provarlo in prima persona. Non passano neanche tre secondi dall’infusione e vogliono già ruotarmi l’arto. Chiedo almeno un pezzo di legno da mordere durante la manovra. Il dolore che provo è il più acuto mai provato in vita mia: ancora mi si gela il sangue al ricordo. Urlo, piango e mordo l’abbassalingua fino a spezzarlo.
(INTEGRA DA LIBRO FISICO)
Il telefono è scarico, mi faccio aiutare a collegarlo alla corrente per contattare i miei migliori amici. Tutti i messaggi iniziano con “Vi voglio bene”, “Qualunque cosa succeda sappiate che vi amo”.